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Un gesto concreto di solidarietà: il Giannone per la Palestina

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    redazione volta.pagina
  • 24 set
  • Tempo di lettura: 7 min

Aggiornamento: 22 ott

In un momento storico come il nostro, segnato da conflitti e ingiustizie sociali, la scuola si conferma luogo di impegno civile e, soprattutto, di educazione alla partecipazione. Ringraziamo la professoressa Simeone, del liceo Giannone di Benevento, per aver risposto alle nostre domande sulle motivazioni che l’hanno spinta, insieme agli altri docenti del liceo, a firmare una raccolta firme a sostegno della Palestina e della Global Sumud Flotilla.

Di seguito l'intervista completa.


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La ringrazio per la sua disponibilità a questa intervista. Ritengo fondamentale conoscere e documentare la storia del conflitto Israele-Palestina. Soprattutto però, credo che sia importantissimo riconoscere la repressione, il genocidio, perché è questo che il popolo palestinese sta subendo.

Ho pensato quindi a qualche domanda, che credo possano essere dei buoni spunti di riflessione.

Per chi non lo sapesse, lei ha preso parte ad una raccolta firme tra docenti del liceo classico Giannone come gesto di solidarietà alla Palestina, in modo particolare alla Global Sumud Flotilla. Prendere parte ad una raccolta firme non solo è un atto concreto, è anche educativo e simbolico: quale messaggio spera arrivi a noi studenti dal suo impegno e quello dei docenti firmatari?


"Intanto, vorrei precisare che la proposta di scrivere un documento come Liceo Classico Pietro Giannone è partita dalla prof.ssa Francesca Esposito. Io e altri ci siamo immediatamente attivati e abbiamo stilato un testo che poi è stato condiviso dalla dirigente, la prima a firmare (per questo è in cima all’elenco), e poi dalle colleghe e dai colleghi che sono stati inseriti rigorosamente in ordine alfabetico. La risposta del liceo è stata corale: una bella dimostrazione di impegno civile.

Per quanto riguarda la tua domanda, favorire la partecipazione attiva a ciò che succede intorno a noi è alla base della formazione di una coscienza etica e civile che ci consenta di vivere da esseri umani e di non isolarci nel nostro piccolo “particulare”. Diceva Eraclito già nel VI secolo a.C. che l’umanità si divide in svegli e dormienti: c’è chi preferisce rimanere sulla superficie delle cose e chi crede di dover pensare, approfondire, informarsi. Il vostro interesse si muove in questa seconda direzione. E, come docente, me ne compiaccio."



Professoressa, lei e i docenti firmatari avete, come dicevo, dato la vostra solidarietà alla Global Sumud Flotilla. Per chi magari non la conosce bene, può spiegare che cos'è e perché rappresenta un atto di resistenza non violenta e di vicinanza internazionale?


"Ci provo. La Global Sumud Flotilla è una coalizione apartitica, indipendente e umanitaria, costituita da un insieme di imbarcazioni provenienti da 44 Paesi che si sono mosse, partendo dalla Spagna, dall’Italia, dalla Tunisia a cui si aggiungeranno altre navi dalla Grecia, con l’obiettivo di rompere il blocco israeliano, portare cibo e medicine ai gazawi e creare un corridoio umanitario. Esiste già da qualche anno, anche se con nomi diversi e mai in una concentrazione così imponente. Si è provato anche in passato a forzare l’embargo spesso affrontando grandi rischi: nel 2010 la Freedom Flotilla fu attaccata dalle forze israeliane e registrò la morte di dieci attivisti e più di cinquanta feriti. Adesso si è allargata a comprendere una cinquantina di barche: sono volontarie e volontari che cercano di opporsi in modo pacifico all’orrore di cui il mondo intero è testimone. È la risposta, bella e solidale, a mio avviso, della società civile al grido di dolore che sale da Gaza: un atto di resistenza non violenta, come hai detto tu stessa, e un modo di dire no al massacro di un popolo."



Arrivando proprio nel centro della "questione palestinese", crede che le istituzioni sia italiane sia internazionali, stiano facendo abbastanza per fermare la guerra in Palestina e per garantire ai palestinesi i loro diritti e soprattutto, la loro terra?


"La questione è molto complessa: l’area mediorientale è stata sempre una polveriera. Si è cercato in passato di arrivare a risposte che contemplassero la possibilità per i due popoli di coesistere in una stessa terra, come le risoluzioni ONU e gli accordi di Oslo del 1993 che, sulla base della soluzione a due Stati, avrebbero dovuto concretizzare la costruzione di uno stato palestinese indipendente, considerato che quello di Israele esisteva dal 1948. Per quanto riguarda la situazione che si è creata dal 7 ottobre 2023, abbiamo assistito al raid di Hamas che per ferocia e disumanità ha provocato un vero e proprio shock e ha giustamente visto il mondo al fianco degli israeliani. Tuttavia, la reazione sproporzionata del governo Netanhayu che, per scovare i terroristi, ha proceduto al sistematico annientamento di civili inermi, ha fatto crescere l’indignazione nella società civile, anche in quella più cauta inizialmente, con una progressiva mobilitazione per fermare quello che si è configurato sempre più come un genocidio. In riferimento alla UE, le sue risposte si sono mostrate finora scarsamente incisive, anche a causa del criterio dell’unanimità: solo qualche giorno fa la Commissione ha proposto di sospendere parti dell’accordo commerciale con Israele e ha finalmente dichiarato che ci saranno sanzioni verso i ministri più estremisti di Israele e i coloni violenti. Il nostro governo, tranne le espressioni di solidarietà e i doverosi aiuti umanitari, non ha assunto una posizione politica precisa: ancora non ha nemmeno simbolicamente riconosciuto, come hanno fatto altri paesi, ad esempio la Spagna di Sanchez, lo Stato di Palestina. La situazione è in fieri: speriamo che nei prossimi giorni le cose cambino."



La guerra in Palestina è uno dei conflitti più lunghi e irrisolti della storia contemporanea. Perché oggi è ancora così difficile parlare apertamente di Palestina e della striscia di Gaza? E secondo lei, quanto l'indifferenza e la disinformazione dell'opinione pubblica influiscono nel mantenere questa situazione così rammaricante?


"Non è facile rispondere: ci sono due popoli con due ragioni, ma ci sono anche due parti che si fronteggiano ad armi impari. Israele è uno Stato forte, che ha alleati potentissimi, come gli USA; i palestinesi sono un popolo sempre più povero, isolato, marginalizzato. Un governo estremista da un lato e un’organizzazione terroristica dall’altro, poi, non favoriscono di certo il necessario clima per arrivare a una soluzione. Gli schieramenti delle potenze dall’una e dall’altra parte, inoltre, rendono ancora più delicata la situazione e precario un equilibrio che, a livello internazionale, si regge, come deterrente, sulla paura di un conflitto di più larga portata. Non dimentichiamo, infine, che molti europei si sentono più affini e vicini agli ebrei di Israele, verso i quali hanno un senso di colpa che risale alle persecuzioni, prima e durante la seconda guerra mondiale, culminate nell’orrore della Shoah, rispetto agli arabi, dai quali si sentono più distanti, anche da un punto di vista religioso e culturale. Naturalmente l’indifferenza verso la loro sorte ha avuto un ruolo importante come la disinformazione che consente alla propaganda di regime di veicolare la propria verità senza trovare resistenza critica. Oggi, però, si può assistere in diretta alla carneficina che avviene quotidianamente e le accuse di antisemitismo con cui Netanyahu continua a tacitare ogni obiezione appaiono ingiuste, ormai del tutto svuotate di realtà, non più sopportabili."



Mi collego alla domanda precedente chiedendole: per contrastare la disinformazione e l'indifferenza, crede che parlare di Palestina-Israele in modo chiaro in classe, sia un modo per formare cittadini consapevoli?

"Certo che sì. La scuola ha un compito formativo a cui non deve e non può rinunciare: la promozione di una matura coscienza civica e di una responsabilità sociale devono essere al centro dell’azione docente. A cosa serve ricordare il processo a Socrate, l’assassinio di Ipazia, il rogo di Giordano Bruno se dalle loro morti non impariamo nulla? A cosa la storia se non capiamo come certi meccanismi in determinate situazioni possono ripetersi e riportarci sull’abisso? È fondamentale che voi studenti acquisiate gli strumenti critici necessari a leggere il presente e questo si può fare solo affrontando con rigore scientifico e sensibilità umanistica lo studio di ciò che avviene intorno a noi."



Crede che le istituzioni sia italiane sia internazionali, stiano facendo abbastanza per fermare la guerra in Palestina e per garantire ai palestinesi i loro diritti e soprattutto, la loro terra?


"La questione è molto complessa: l’area mediorientale è stata sempre una polveriera. Si è cercato in passato di arrivare a risposte che contemplassero la possibilità per i due popoli di coesistere in una stessa terra e di negoziati come gli accordi di Oslo del 1993 che, sulla base della soluzione a due Stati, avrebbero dovuto concretizzare la costruzione di uno stato palestinese indipendente, considerato che quello di Israele esisteva dal 1948. Per quanto riguarda la situazione che si è creata dal 7 ottobre 2023, abbiamo assistito al raid di Hamas che per ferocia e disumanità ha provocato un vero e proprio shock e ha giustamente visto il mondo al fianco degli israeliani. Tuttavia, la reazione sproporzionata del governo Netanhayu che, per scovare i terroristi, ha proceduto al sistematico annientamento di civili inermi, ha fatto crescere l’indignazione nella società civile, anche in quella più cauta inizialmente, con una progressiva mobilitazione per fermare quello che si è configurato sempre più come un genocidio. In riferimento alla UE, le sue risposte si sono mostrate finora scarsamente incisive, anche a causa del criterio dell’unanimità: solo qualche giorno fa la Commissione ha proposto di sospendere parti dell’accordo commerciale con Israele e ha finalmente dichiarato che ci saranno sanzioni verso i ministri più estremisti di Israele e i coloni violenti. Il nostro governo, tranne le espressioni di solidarietà e i doverosi aiuti umanitari, non ha assunto una posizione politica precisa: ancora non ha nemmeno simbolicamente riconosciuto, come hanno fatto altri paesi, ad esempio la Spagna di Sanchez, lo Stato di Palestina. La situazione è in fieri: speriamo che nei prossimi giorni le cose cambino."



Concludo quest'intervista ponendole questa domanda. c'è futuro per la Palestina? C'è spazio per la speranza che i palestinesi possano tornare a vivere sereni nella propria terra, nonostante anni di repressione e di guerra?


"Onestamente non so rispondere. Se guardiamo freddamente a ciò che sta accadendo, i motivi per sperare sono veramente pochi. Lo scenario è quello di migliaia di esseri umani in fuga verso non si sa quale luogo mentre ci sono politici come Smotrich, ministro delle finanze israeliano, che ha parlato di Gaza come di un Eldorado immobiliare da spartire con gli Usa. Espressioni rivoltanti, fatte sul sangue di migliaia di esseri umani. Ecco, se pensiamo a quello che sta accadendo oggi a livello internazionale, siamo tentati di essere pessimisti. Tuttavia, credo che tutto questo finirà e, come è accaduto per gli orrori dei totalitarismi, così i crimini verranno alla luce nella loro crudeltà e i responsabili processati nelle sedi opportune. È sempre successo nella storia: abbiamo bisogno di crederci e soprattutto di capire che la storia è fatta dagli uomini, che gli uomini siamo noi, che non possiamo aspettarci che le cose cambino da sole e che se vogliamo che il mondo sia migliore dobbiamo impegnarci concretamente per migliorare noi stessi e per affermare i diritti di tutti i popoli a una convivenza civile e dignitosa."

 
 
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